Giovedì 16 ottobre si è tenuta a Povegliano veronese la presentazione dell'ultimo libro del professor ing. Pietro Spellini, intitolato "La mia Agraria" (volume edito con il contributo della Fondazione Cattolica Assicurazioni). Invitato a moderare Giorgio Vincenzi, direttore del mensile "Vita in campagna".
Il professor Spellini si è dedicato all'insegnamento delle Scienze Agrarie dal 1968 al 1985, presso la sede di Isola della Scala (VR) dell'Istituto Professionale Agrario "Stefani-Bentegodi". Alla docenza è poi seguito l'impegno diretto in agricoltura presso l'azienda Le Fornaci e l'esercizio dell'attività di ingegnere agrario per diversi anni. Lunga e di primo piano quindi l'esperienza "sul campo" del prof. Spellini che, dopo aver dato alle stampe, due anni fa, il volume "De le fornase nobile poesia", dedicato alle sue ricerche storiche sui territori del villafranchese, è tornato alla scrittura per parlare dei suoi ricordi di insegnante.
Una delle mie terribili foto della serata: al centro il professor Spellini, a destra il direttore Vincenzi. |
Tra il pubblico, numerosi i suoi ex allievi, giunti con affetto per ascoltarlo. Il professore rievoca vecchi ricordi di scuola, gli anni a contatto dei suoi amati ragazzi, nell'impegno di trasmettere loro il sapere della professione agricola e i valori educativi per crescere e diventare uomini (o donne). Ripercorrere i momenti belli o difficili del passato si rivela anche essere una piccola scusa per un confronto con la realtà attuale, fatta di crisi economica e disoccupazione giovanile.
L'Italia di cinquant'anni fa era un Paese fondato ancora su profonde contrapposizioni. Prima di tutte, la dualità città/campagna, in cui la città era la mèta ambìta dai giovani con forte spirito di iniziativa che desideravano aprirsi una strada da imprenditori, mentre la campagna costituiva il rifugio per i ragazzi che invece non volevano o non potevano tentare la fortuna col loro mestiere.
Campagna però non significava povertà e degrado: l'epoca era quella del riscatto della terra dai contratti di mezzadria, quando il valore dei terreni non era alle stelle e l'imprenditoria agricola si poteva intraprendere con successo anche da giovani, partendo da piccoli capitali. I contadini, d'un tratto, si trovarono al brusco passaggio dall'essere dipendenti dei proprietari terrieri all'essere proprietari. Stava nascendo una nuova società, che aveva bisogno dell'istruzione per trovare competenze professionali e soprattutto dignità, grazie all'acculturamento e alla presa di coscienza di sè e al desiderio di "fare le cose bene". Quel "fare" fu la parola chiave dei nuovi panorami economici e sociali dell'Italia di allora. Il mestiere del professore era quindi andare incontro ai ragazzi che rimanevano in campagna, e fornire loro una formazione tecnica e mentale che li rendesse consapevoli dell'importanza del loro ruolo.
Piacevole e allegra la conversazione del professor Spellini. |
Un'epoca fortunata, secondo Spellini, perchè non esisteva la Graduatoria unica nazionale degli insegnanti, e i presidi erano liberi di scegliere il personale docente non solo sulla base di un punteggio, ma anche delle concrete conoscenze della materia e del territorio da parte degli insegnanti. Così, in zone rurali destinate alla coltivazione del mais, poteva essere assegnato un professore esperto di mais. Altri tempi davvero, viene da pensare. Una scelta simile oggi non sembrerebbe facilmente applicabile, se non altro per i timori di usi scorretti di tali libertà selettive.
Seguono un po' di aneddoti: i ragazzi dei corsi serali che, in piedi dalle quattro della mattina perchè impegnati con la stalla di famiglia, arrivati a sera preferivano seguire le lezioni in piedi onde evitare di addormentarsi seduti al banco; e poi gli studi separati e differenti di maschi e femmine, quando le classi non erano miste e alle ragazze erano dedicati solo corsi di economia domestica, cucina, dattilografia, sartoria, per diventare "coadiutrici aziendali", in vista di un ruolo di appoggio -quindi non protagonista- al maschio all'interno dell'impresa.
Tra le storie più emozionanti, il viaggio in Irpinia con la classe per aiutare i terremotati.
Un mercoledì del gennaio 1981, avevo un'ora in una quarta, entro e i ragazzi subito mi chiedono "professore ci organizza una settimana bianca?". Era da poco avvenuto il terremoto in Irpinia (23 novembre 1980), sono rimasto un po' pensieroso e poi "mi meraviglio di voi, mi sarei aspettato, quando ci organizza un periodo di lavoro in Irpinia?"
I ragazzi prendono il professore sul serio, con sua grande sorpresa. La classe decide di partire. Nessuno di loro prima aveva superato gli Appennini. Il professor Spellini organizza il viaggio, tra qualche dubbio e difficoltà:
Non mi aspettavo l'adesione di Giorgio Lanza, autista, è una persona tranquilla che non ama le novità, nel suo pulmino non bisognava fare troppo chiasso e i ragazzi dovevano entrare con le scarpe pulite, però ha accettato subito. Giuseppe (Beppe) Carazza l'estroso insegnante tecnico, non ha avuto problemi ad accettare "purchè non mi porti in mezzo ai preti," non aveva detto in mezzo alle suore, ed ero a posto.
L'incontro con la tragica realtà di Senerchia dopo il terremoto:
Il mattino all'alba tutti pronti ma non c'era nessuno. I paesani dormivano nelle roulottes. Ho fatto un giro per il paese: di una casa, già sgomberata dai militari, era rimasto solo il pavimento della cucina e un anziano signore piccolo e tarchiato, lo stava accuratamente scopando e pulendo: "lo fa tutti i giorni, è il suo modo di rimanere attaccato alla vita" mi ha detto la suora.
I rapporti con gli abitanti irpini:
Ho visto un gruppo di persone che raccoglieva cavolfiori da un grande appezzamento, "ragazzi stasera cavolfiori". Ho detto a Giorgio di avvicinarsi e comprarne due ceste. Il capo, basso e ben panciuto, quello che nell'immaginario colettivo del nord è un caporale mafioso, vuol sapere chi siamo e cosa facciamo, gli spiego e lui apostrofa due persone in un linguaggio a me incomprensibile. Questi partono e tornano con due casse di cavoli veramente splendidi. Ho chiesto quanto voleva e mi ha risposto "voi siete venuti dal nord a lavorare per noi e per questo intendo regalarvi i cavoli più belli del mio appezzamento." Dentro di me, e poi l'ho esternato ai ragazzi, mi sono sentito un verme, l'avevo giudicato un caporale, si era rivelato un uomo di grande sensibilità.
Deborah Kooperman canta, accompagnandosi con la chitarra. |
Si parla di ragazzi, insomma, di studenti, di ieri, e penso che non si può non fare paragoni con quelli di oggi. Hanno un comune denominatore: la terra. Una volta, punto di partenza. Adesso, punto di ritorno, per i giovani che non trovano lavoro nel terziario nonostante una laurea, un master o un soggiorno Erasmus.
La serata è stata intervallata dagli intermezzi musicali di Deborah Kooperman, americana figlia di contadini, da anni trapiantata nel villafranchese, dove ha un negozio, e collaboratrice in passato di Guccini, Dalla, Ron. La sua attività di folksinger l'ha portata a contatto durante l'adolescenza con Bob Dylan. Le canzoni da lei selezionate per la serata sono legate al vissuto degli agricoltori statunitensi, anch'essi divisi tra amore per la terra, sogno di riscatto e scontro con una realtà lavorativa non sempre soddisfacente: cito in particolare Times are getting hard boys, canzone che tratta della delusione dei piccoli agricoltori che, durante la grande siccità degli anni Sessanta, migrarono in California per trovare benessere, e Oleanna, che parla dei sogni a occhi aperti dei contadini norvegesi, giunti in America in cerca di fortuna ma capitati in una zona agricola, Oleanna, tutt'altro che generosa.
Così, grazie a Deborah, abbiamo scoperto che la realtà agricola italiana e la sua storia ha qualcosa da spartire, in termini di speranze e di disillusioni, con quella d'oltreoceano.
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